Un Dio fatto di parole

Il linguaggio è un’anima, una creatura viva e pulsante, sempre in trasformazione e in evoluzione. Le sue etimologie evidenti e segrete lo arricchiscono sino a renderlo oggetto di ricerca dal fascino impareggiabile. Approfondire i significati nascosti delle parole diventa un viaggio in cui perdersi, un labirinto da cui non si può e non si desidera più tornare indietro.

La lingua italiana è un crogiuolo di radici e afflati rubati da altre tradizioni e culture. In un’unica banale frase di utilizzo quotidiano, magari sono contenute etimologie semitiche, latine e greche, del tutto fuso in un unico caleidoscopio magmatico e inscindibile.

Il nostro linguaggio cela influenze cariche della saggezza dei millenni trascorsi, come uno scrigno in cui trovare antiche perle e diademi preziosi. Affascinante è smarrirsi per ritrovare significati inimmaginabili e dalle radici antiche e stupefacenti.

In questo trovo che la nostra lingua sia simile a Dio. La religione è, infatti, imprescindibile dal linguaggio perché utilizza la parola per esprimere i suoi dogmi e coinvolgerci nei suoi riti. Ma non solo: la religione si nutre della parole, respira le parole.

Anche la nostra religione non è certo un nucleo dal significato immutabile e inscindibile: in essa si intrecciano giochi di simboli e figure, e spirali narrative disorientanti e frammentate. Un Vecchio e un Antico Testamento separati dall’invisibile quanto arbitrario solco imposto da un regista ignoto quanto la mano che ha vergato i nostri sacri testi. Personaggi che rubano la scena e scompaiono, puniti o graziati da un dietro le quinte tanto invisibile quanto drammatico.

Dio è parola, Dio è linguaggio, e il nostro linguaggio cresce e si evolve con lui. Se la nostra anima palpita con il respiro, la creazione si riflette e si aggroviglia nel nostro linguaggio. In fondo, ciò che ha sempre distinto Adamo dagli angeli era il dono ricevuto di sape attribuire nomi alle creature.

Credo sia necessario riscoprire la sacralità del linguaggio, trasformare in rito ogni comunicazione, dalla più spontanea e quotidiana a quella frutto di attente preparazioni per non deludere durante un’occasione speciale.

La comunicazione è l’essenza di Dio. Il primo atto di Dio è comunicare la luce. Dio è comunicazione: crea perché ha bisogno di comunicare sé stesso. Comunicare è il bisogno primario dell’uomo: sopravvivenza, istinto, e caccia al cibo sono solo attività di contorno che permettono all’uomo di sostentare la sua attività principale, ossia la comunicazione.

Ma comunicare non significa essere obbligati a parlare: proprio come Dio quando si cela, spesso la forma più efficace di comunicazione è il silenzio. E utilizzare il linguaggio non significa banalizzare le parole o essere obbligati a un flusso continuo e frastornante di costrutti semantici. Poche e scelte parole comunicano meglio di tanto baccano, proprio come un calice di buon vino rende più saggi senza ubriacare.

Cercare la nostra dimensione del linguaggio, riscoprire un rapporto intimo, un ritmo con cui siamo a nostro agio con le parole: questo significa ritornare ad amare il linguaggio come merita, proprio come se stessimo rimettendo piede in una chiesa che non frequentiamo da tanti anni, e ci accorgessimo di quanto la penombra di quel quieto raccoglimento ci riporta in pace con noi stessi.

Amare Dio significa amare le parole che pronunciamo, fare tesoro da quel dono che ci sgorga dalle labbra, coltivarlo e vegliarlo, proteggendolo da bugie e calunnie. Non a caso per gli antichi ebrei uno dei peccati più gravi era la maldicenza.

Chi corrompe il linguaggio, o abusa delle parole, recide il più forte legame che gli è stato donato per riconciliarsi con la sorgente. il linguaggio non è solo un dono: è uno specchio che, se conservato lucido e scintillante, ha il potere i riflettere ben più che noi stessi. Può mostrare il volto di Dio.

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